Risoluzione del Comintato Centrale del Fronte Comunista, approvata all’unanimità il 9/10/2021
Il primo turno delle elezioni comunali 2021 si è concluso ed è giunto il momento di trarre alcune considerazioni che emergono dai risultati delle urne. Il Partito Democratico prevale in quasi tutte le principali città al voto riuscendo ad eleggere al primo turno a Milano, Bologna e Napoli, contro un centrodestra diviso internamente dalla lotta per la leadership e più interessato alla partita nazionale che ad aggiudicarsi grandi comuni storicamente difficili da governare e capaci di produrre un effetto boomerang a livello di consensi.
Il declino del Movimento 5 Stelle si conferma nella tendenza a rientrare in un più ampio polo di centro-sinistra e alla riaffermazione di un assetto prevalentemente bipolare capace di attrarre la quasi totalità dei voti sui partiti di governo. La grande conferma di queste elezioni è rappresentata proprio dalla stabilità del sistema politico che, anche di fronte alla pandemia, non vede messa in crisi la propria credibilità, ma al contrario vede rafforzarsi il governo e la gestione capitalistica della crisi. Unica nota di controtendenza è rappresentata dall’aumentare dell’astensione, che raggiunge picchi record nelle città di Milano e Torino. Un’astensione che certamente certifica la perdita di interesse, oltre che di fiducia, di una parte della popolazione nei confronti di questo sistema politico, ma non si traduce in una reale manifestazione di protesta consapevole per l’assenza di alternative credibili.
Le forze che si richiamano al comunismo hanno confermato le facili previsioni registrando, seppur con differenze anche notevoli tra le diverse città, una netta sconfitta che difficilmente può, questa volta, essere spacciata per un ulteriore passo in avanti.
La galassia a sinistra e la crisi dei comunisti in Italia
Crediamo sinceramente che da queste elezioni amministrative si debba uscire senza politicismi e retorica, ma con la massima umiltà di chi, di fronte alle condizioni attuali, deve rimboccarsi le maniche per invertire la tendenza in atto. Non è possibile far finta di non vedere che, di fronte all’acuirsi delle contraddizioni sociali, di fronte alla pandemia e ai governi d’unità nazionale che la stanno gestendo, non si rafforzano né le forze di classe, né i partiti che vorrebbero rappresentarle, ma, al contrario, mostrano tutta la loro debolezza e mancanza di credibilità nei risultati e nella frammentazione elettorale. I partiti dell’area comunista scontano la mancanza di organizzazioni di base percepite ed in grado di intervenire nei luoghi di lavoro o nei quartieri popolari, elementi imprescindibili per lo svolgimento di un lavoro strutturato a contatto con la classe che è fondamentale per i comunisti. A ciò va aggiunta l’assenza di quadri comunisti con effettiva funzione di orientamento e indirizzo strategico nel quadro di un movimento operaio in difficoltà, frammentato e non in grado di esprimere una conflittualità generalizzata. A questi elementi di debolezza sul piano della capacità di conduzione concreta della lotta di classe vanno aggiunte carenze, condivise da tutte le forze che si richiamano al comunismo, sul piano della incisività politico-ideologica, quali l’incapacità di attrarre o formare intellettuali che possano svolgere un ruolo nel contesto di una battaglia culturale per l’egemonia e la sostanziale incapacità di quelle forze di emergere ed essere visibili nel dibattito politico quotidiano, nei temi sui quali esso si incentra e di portarvi delle istanze di classe. Tutti questi elementi, che dovrebbero costituire ambiti primari dell’attività di un’organizzazione comunista, non solo non esistono nella realtà delle organizzazioni di classe nel contesto attuale ma si accompagnano anche ad una impreparazione dei gruppi dirigenti che navigano spesso a vista, con consapevolezza limitata, interessati spesso unicamente alla sopravvivenza propria o della propria organizzazione. In questo quadro, infine, le discussioni ideologiche finiscono per essere affrontate in modo del tutto scollegato dalla realtà della lotta di classe e delle esigenze ad essa collegate, trasformandosi in una ricerca spasmodica di radicalità parolaia o di mera autorappresentazione senza prospettive chiare riguardo la costruzione di una strategia rivoluzionaria e la sua applicazione concreta. Questa condizione di debolezza, di cui abbiamo sinteticamente riportato alcuni tratti, si concretizza plasticamente nel pesante quadro complessivo restituito dai risultati di questa tornata elettorale.
Riteniamo sia il momento di aprire una seria riflessione che metta in discussione l’approccio alle elezioni che i vari partiti dell’area comunista hanno portato avanti negli ultimi anni, sintomo di una rincorsa alle scadenze elettorali decisa quasi esclusivamente sulla base della capacità di riuscire a raccogliere le sottoscrizioni necessarie alla candidatura o meno. Quando, come nel contesto attuale per via della pandemia, le sottoscrizioni necessarie vengono ridotte, allora la frammentazione diviene ancora più evidente.
Ciò che facilmente si evince da questa situazione è quanto il voto delle formazioni che si richiamano al comunismo non sia un voto strutturato, né legato a quel radicamento che ad ogni tornata elettorale ci si prefigge di raggiungere. Dove la frammentazione è maggiore, tutti i partiti ne risentono in egual modo, dove è minore (anche per mancanza di candidati fuori dal centrosinistra), i risultati salgono per tutti. I partiti che si definiscono comunisti si dividono un bacino di voto ideologico residuale, destinato ad assottigliarsi sempre di più in assenza di una reale strategia di radicamento e di superamento di una frammentazione completamente incomprensibile a chiunque non sia un addetto ai lavori.
I risultati di queste elezioni dimostrano il fallimento dell’idea che si possa rafforzare la ricostruzione comunista attraverso la perseveranza e la sola presenza continuativa sulla scheda elettorale, senza che vi sia alle spalle alcun effettivo radicamento nella classe operaia e tra i lavoratori, senza che questi la sostengano, le diano sostanza e credibilità: nelle grandi città, Rifondazione Comunista (ma il dato tiene in conto i risultati delle coalizioni variabili con Dema, Sinistra Anticapitalista e altri) segna una media dell’1,06; Potere al Popolo una media dello 0,90; il Partito Comunista Italiano una media dello 0,40; Il Partito Comunista una media dello 0,38; il Partito Comunista dei Lavoratori una media dello 0,17. Questi risultati segnano, in molti comuni, un arretramento in termini percentuali e assoluti.
Quasi in nessun caso, però, le oscillazioni elettorali sono determinate dall’effettivo radicamento o meno dei partiti in quei territori e vanno lette proprio in ragione della natura ideologica del voto richiamato da queste liste. Un risultato maggiormente positivo segnato in una tornata elettorale, infatti, può essere vanificato facilmente in quella successiva dalla semplice presenza di più candidati a spartirsi lo stesso, misero, bacino di voto ideologico.
Il problema, dunque, non è solamente rappresentato dalla scarsezza del risultato elettorale ma anche, e soprattutto, dalla natura del voto che, in questo senso, non rappresenta un bacino di sostegno strutturato a quei partiti, frutto del lavoro di radicamento, ma solamente un residuo di voto ideologico. Non interrogarsi su questo e continuare a concepire la partecipazione alle elezioni come strumento volto a “marcare una presenza”, reiterando la frammentazione, contribuisce da un lato a favorire lo scoramento di quanti, pur riconoscendosi nella prospettiva comunista, vedono la frantumazione e i pessimi risultati, dall’altro mina la sedimentazione di una credibilità della prospettiva comunista nella classe e nella società.
I risultati elettorali sono difficilmente mistificabili. I tentativi di leggerli come positivi, anteponendo al dato complessivo e generale un risultato isolato particolarmente soddisfacente, raggiunto magari in un piccolo comune – come nel caso del PCI in riferimento ai comunicati il giorno dopo il voto riguardo ai risultati a Polistena, Varedo o Santa Luce -, parlando di gioco elettorale truccato, di liste civetta, o presentando i risultati delle elezioni suppletive – come nel caso del Partito Comunista, che il giorno dopo il voto presenta trionfalmente i risultati conseguiti nei seggi di Siena-Arezzo e Roma Primavalle, arrivando a definirsi il terzo partito dopo centrodestra e centrosinistra – per mascherare i risultati negativi ottenuti negli stessi territori, non fanno bene alla nostra causa, riproducono le condizioni della sconfitta e privilegiano le velleità politiciste ed elettoraliste dell’apparire alla necessità cogente e non più rimandabile dell’essere. Una prassi del genere rafforza nelle masse, anche in chi è ideologicamente più vicino, la sensazione della totale irrilevanza e marginalità delle organizzazioni politiche che si rifanno al comunismo, favorendo disimpegno, astensione e “voto utile”.
Un altro modo di intendere il partito
Non vogliamo dare lezioni e non ci riteniamo innocenti di fronte al panorama di desolazione delle forze di classe. Vogliamo però provare ad essere parte della soluzione del problema, contribuendo a riportare la questione su quelli che consideriamo i binari per farlo. Le derive elettoraliste che hanno caratterizzato la pratica politica delle liste comuniste degli ultimi anni, anche se mascherate da altro, rivelano una concezione di “partito di consenso” che va combattuta, anche perché – bisogna essere chiari: non esiste più un consenso da amministrare.
Per anni si è giustificata la rincorsa alle elezioni con il mantra di utilizzarle per la costruzione del partito. Oggi è necessario criticare questa mistificazione che, partendo dall’idea corretta di utilizzare le elezioni come componente della più complessiva attività del partito, senza l’illusione che tramite queste si possa conquistare il potere, finisce per trasformare questo concetto nell’idea che, partecipando sempre e comunque alle elezioni, si possa costruire il partito, sfociando così nella conseguente prassi opportunista. Il risultato di tale retorica è una corsa di elezione in elezione nella speranza che queste possano, attraverso la visibilità, portare più iscritti e che, pian piano, i risultati elettorali segnino una crescita progressiva, cosa che semplicemente non avviene.
Questa valutazione, oltre a trovare riscontro nella realtà che emerge dai risultati elettorali, è direttamente frutto dell’esperienza di molti dei nostri compagni all’interno del PC, molti dei quali sono stati membri dell’Ufficio Politico, del Comitato Centrale e responsabili di Comitati Regionali e Federazioni prima della rottura. La maturazione dei risultati di quell’esperienza è stata la percezione dell’esigenza di correggere una prassi organizzativa e politica sempre più ripiegata sul lavoro elettorale, senza un corrispettivo sviluppo delle capacità di intervento organizzato e di supporto di quel partito tra i settori sindacali più combattivi nonostante la visibilità ottenuta con le partecipazioni elettorali.
Senza dubbio l’esperienza materiale ci ha posto tardivamente di fronte al risultato di una prassi probabilmente già viziata in partenza, l’illusione cioè che attraverso la partecipazione alle elezioni, e utilizzando le forze organizzate a nostra disposizione, si potesse forzare la situazione di frammentazione cannibalizzando il blocco di consenso residuo che ancora si raccoglieva intorno ai programmi e alle parole d’ordine dei comunisti, sostenendo l’idea che la ricostruzione del partito passasse attraverso l’affermazione elettorale, nell’illusione che la crescita del partito dipendesse unicamente dall’annientamento delle altre forze afferenti all’area comunista presenti sulla scheda elettorale, dalla sparizione della “concorrenza”. Un duplice errore. Il primo è quello di aver sottovalutato gli effetti immediati di una discreta affermazione elettorale nell’area che – in assenza di una chiarificazione profonda e netta sulla natura dell’opportunismo e sui compiti strategici dei comunisti – ha fatto riemergere le forme tipiche della gestione opportunista di un’organizzazione: il declino progressivo del livello di dibattito interno, l’inseguimento del consenso all’interno di tutte le classi sociali in maniera completamente slegata alle esigenze organizzative di radicamento tra i lavoratori e l’incapacità endemica di sviluppare un intervento di massa sulla base di un orientamento di classe sono stati problemi alimentati anche da questo meccanismo. Il secondo è quello sul quale si sono concentrati con particolare attenzione l’autocritica e la discussione che hanno portato alla fondazione della nostra organizzazione: aver cercato di forzare il superamento della frammentazione in ottica esclusivamente organizzativa e non politica, non ponendo la questione all’interno del rapporto effettivo dell’organizzazione con le avanguardie operaie in lotta in Italia, elemento che nel PC, come detto, non si è mai assunto come indirizzo realmente applicato.
Abbiamo riconosciuto questo errore e la critica a questa impostazione, insieme al rifiuto categorico di una parte del gruppo dirigente di accettare qualsiasi discussione in proposito, è stata uno dei motivi che hanno portato alla nostra rottura con quel partito.
Il Fronte Comunista ha scelto di non essere presente alle elezioni amministrative 2021 non per aver abbracciato principi astensionisti, ma proprio perché non abbiamo voluto contribuire ad alimentare questa frammentazione che inevitabilmente sta portando disillusione e perdita di credibilità dei partiti che si definiscono comunisti. La nostra è dunque una scelta di priorità, di metodo di lavoro e di consapevolezza delle proprie forze.
Non avremmo avuto difficoltà a raccogliere l’esiguo numero di firme necessarie in tutte le principali città del Paese che sono andate al voto, ma riteniamo vada fatta una riflessione più profonda su cosa significhi per i comunisti il rafforzamento del partito anche, ma non solo, attraverso le campagne elettorali, rafforzamento che non può prescindere da un effettivo radicamento tra i lavoratori e che solo può dare forza, risonanza e credibilità ad una successiva candidatura, con un programma che non scimmiotti le altrui proposte populiste in senso radicale, ma sia autenticamente di rottura, rispondente agli obiettivi concreti di lotta e di scontro di classe perseguiti al di fuori del contesto elettorale e delle istituzioni borghesi.
Riteniamo che le istituzioni rappresentative borghesi non siano il terreno principale della lotta di classe, ma non sottovalutiamo in alcun modo il ruolo delle elezioni, delle campagne elettorali e della rappresentanza in una fase non rivoluzionaria, né pensiamo che se ne debba fare a meno. Al contrario, occorre cercare una strada che ci permetta, realmente e non solo nella forma della testimonianza residuale, di portare la battaglia per una società socialista anche all’interno delle istituzioni borghesi e contro di esse, sgombrando il campo dalle illusioni di autoconservazione che guidano molti partiti della “galassia comunista” e ponendoci l’obiettivo di invertire realmente la tendenza alla marginalizzazione.
La frammentazione elettorale
La frammentazione elettorale è un problema non eludibile semplicemente sminuendo il significato delle elezioni e trasformando il necessario radicamento tra le masse in un mero argomento retorico. Siamo consapevoli che radicamento, visibilità e credibilità sono connessi strettamente alla presenza nelle lotte, al forte legame con la classe operaia e a un programma condivisibile e credibile perché politicamente valido. Questi elementi e in generale il ruolo che i comunisti devono avere oggettivamente nella lotta di classe sono un aspetto fondamentale per la ricostruzione comunista nel nostro paese, ma non esauriscono gli ambiti su cui occorre lavorare, né devono indurre a pensare che la questione elettorale semplicemente non riguardi i comunisti. Un costante lavoro di radicamento e di orientamento delle masse nella lotta sono elementi necessari ma non sufficienti, dal momento che le lotte economiche producono una componente sociale ancora da politicizzare affinché, oltre che classe “in sé”, diventi classe “per sé”. Questo può avvenire se un partito comunista si rende credibile e visibile , quindi anche, ma non solo, attraverso la presenza elettorale. Tralasciare questi aspetti significa favorire un arretramento politico e ideologico del movimento operaio, già abbastanza marcato, ascrivibile alla mancanza, per la classe, di un chiaro punto di riferimento politico che, al contrario, deve intervenire sul livello attuale di coscienza operaia per elevarlo, con un’opera di chiarificazione della natura dello stato e della democrazia borghese. Affrontare il problema, dunque, richiede di sciogliere i nodi delle questioni politiche riportando il tema dell’unità comunista sul piano del confronto e del dibattito ideologico e politico.
Individuare come cruciale il problema della frammentazione elettorale non significa, infatti, sottovalutare le differenze oggi esistenti a livello teorico, politico e strategico tra i partiti che si definiscono comunisti, ma, al contrario, credere che sia possibile superare la condizione odierna solo attraverso un confronto ampio, pubblico, che vada oltre la poco utile discussione tra organismi dirigenti, ma coinvolga quanto più possibile la classe operaia, i proletari, tutti gli sfruttati di questo paese.
Per questo motivo siamo da sempre fortemente contrari a ipotesi di cartelli elettorali eterogenei, coperti dall’ambiguità di fumosi progetti di lungo periodo, incapaci di colpire al cuore il problema e destinati a sciogliersi di fronte alle differenze. Progetti di questo tipo hanno mostrato di basarsi sostanzialmente sul tentativo delle forze componenti di conquistare un maggior numero di voti ma, guardando ai risultati conseguiti negli ultimi anni, hanno dimostrato che l’inefficacia e la perdita di consenso sono dinamiche condivise sia dalle forze che si definiscono comuniste e si presentano da sole, che dalle poco esaltanti esperienze delle “liste unitarie di sinistra” a cui spesso, anche in questa tornata, i partiti che si richiamano al comunismo scelgono di partecipare.
Crediamo che questo turno elettorale sia l’ennesimo e definitivo segnale che qualcosa non va. È necessario assumersi la responsabilità di ricominciare da zero, senza illusioni sull’opportunità di realizzare fusioni a freddo, nella convinzione che non possa esistere unità senza condivisione teorica e politica, tattica e strategica e nella consapevolezza che una tale convergenza può avvenire unicamente nella pratica della lotta di classe, nel dibattito, nel confronto e non tramite la condivisione delle campagne elettorali.
Rimettere la questione dell’unità comunista nella giusta ottica è il primo passo per superare una frammentazione che mostra il suo volto più manifesto durante le elezioni, ma che non può essere risolta dalle elezioni. Riportare la tattica elettorale al giusto posto nella strategia comunista è un passo in avanti nella direzione della ricostruzione dei legami con la classe operaia. Sgombrare il campo dalle proposte di cartelli elettorali e riportare la questione sul piano del confronto, del dibattito e della lotta di classe è un passo in avanti verso la soluzione del problema della frammentazione.