Il disastro accaduto a seguito dell’esplosione nella raffineria ENI di Calenzano è l’ennesimo esempio di come a pagare le conseguenze dalla negligenza e della necessità di profitto delle aziende siano sempre e solo i lavoratori. Al momento nel sito produttivo si registrano 5 morti e 27 feriti, che contribuiscono ad aggravare il bilancio delle vittime dell’avidità dei padroni nel 2024. Un bilancio in aumento rispetto all’anno scorso, tant’è che i decessi a fine ottobre 2024 erano già 890: 22 lavoratori in più del 2023.
Ad aumentare la rabbia e lo sconcerto per i continui esempi di falle colpose nei sistemi di sicurezza delle imprese, anche di grandi compagnie, è l’evidenza dei profitti miliardari macinati da ENI, come dalle altre aziende del settore, a seguito del picco dei prezzi dell’energia degli scorsi anni: solo nell’anno 2022 la multinazionale italiana ha registrato un utile netto di 13,8 miliardi, quasi triplicato rispetto ai 5,8 miliardi di dieci anni prima. Una montagna di liquidità che evidentemente non è servita a convincere manager e azionisti a investire adeguatamente nella sicurezza degli operai. D’altra parte, che la partecipazione pubblica in un’azienda – ENI è al 30% statale – non implica, in uno stato borghese, che essa attui strategia diverse e più sostenibili da quelle del capitale privato in generale era stato già stato dimostrato da come l’ENI e le sue consociate avevano devastato il delta del Niger diversi anni fa, a causa delle fuoriuscite di petrolio dai loro oleodotti.
Per diminuire l’incidenza di queste tragedie c’è bisogno di incrementare l’intensità della lotta. Oggi l’insufficienza del conflitto sociale si riflette in una normativa inadeguata a prevenire gli infortuni e le morti sul lavoro: quasi sempre, infatti, le cause radicali delle tragedie, riconducibili alla pressione dei datori di lavoro sui lavoratori affinché questi ignorino le misure di sicurezza per risparmiare tempo e soldi, sono totalmente trascurate dalle sentenze. E questo spiega le condanne molto lievi comminate ai padroni di attività protagoniste di incidenti. L’attuale assetto normativo prevede il reato di omicidio colposo aggravato qualora l’evento mortale avvenga in conseguenza di violazioni delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, ma la genericità degli obblighi e le entità delle pene previste rendono, in realtà, poco efficace il potere di deterrenza nei confronti dei responsabili.
In questo contesto, gli ultimi esecutivi hanno contribuito a rendere più facile alle imprese violare le poche regole esistenti: il D.Lgs. 103/2024 dello scorso luglio, per esempio, ha stabilito l’impossibilità di procedere in contemporanea a ispezioni diverse sulla stessa azienda, la limitazione delle ipotesi di accessi a sorpresa e la valorizzazione del contraddittorio del datore di lavoro. Durante il governo Draghi è stato maggiormente liberalizzato il subappalto, tra i meccanismi che più giocano sulla ricattabilità dei lavoratori e, quindi, all’origine dei incidenti sul lavoro. È oggi urgente lottare per aumentare la capillarità e l’efficacia dei controlli sulle aziende e per conferire una forte rilevanza penale ad una serie di condotte specifiche del datore di lavoro, come ad esempio i mancati investimenti in determinati ambiti della sicurezza e le pressioni psicologiche per fare sì che i lavoratori non ottemperino alle misure obbligatorie.
Finché il potere politico sarà in mano alla classe capitalista e finché saranno le leggi del mercato a dettare le necessità di spesa o di risparmio delle imprese, tuttavia, ogni conquista resterà parziale e temporanea. È anche da questa consapevolezza che deve muoversi ogni lotta dentro i luoghi di produzione.